2025

La proposta di riforma pubblicata nel 2021, come anche la lieva modifica del ’23, era molto lineare, ma anche alquanto “isolazionista”. Mi dispiace questa distanza con le altre lingue latine, e mi sono chiesto se si potrebbe ridurla, eventualmente riducendo la linearità e semplicità delle nuove regole proposte. Dal 2025 ho iniziato a valutare un approccio diverso alla questione, più tradizionalista-integrazionista. Ciò comporta inevitabilmente una maggior complessità delle regole, che sono meno lineari. La riforma, dall’estremo «iperfunzionale», si sposta un po’ in direzione dell’«estetico». Allo stesso tempo, essendo più tradizionalista, potrebbe apparire più familiare per molti, e quindi più facile da introdurre nell’uso.

I pensieri al riguardo sono vari. Qui un abbozzo di nuova proposta. Rispetto al ’21–’23 si abbandona la rappresentazione dell’apertura di e e o fuor d’accento primario; e si rappresenta invece esplicitamente il raddoppiamento fonosintattico. Circa gli strumenti impiegati, si abbandonano le lettere nuove (⟨ɛ, ɔ, ʃ, ʒ, ʋ⟩, e la «t lunga»), usando invece combinazioni di lettere o segni diacritici.

  • Il suono /(ʎ)ʎ/ si rappresenta con N⟨lj⟩, in qualsiasi posizione.
    Es.: N⟨molje, filji, familja, ljelo, palja, miljo⟩.
    L’articolo /*ʎi/ A⟨gli⟩ N⟨lji⟩ s’elide in N⟨lj’⟩; e similmente le sue combinazioni nelle preposizioni composte, N⟨sulji⟩, N⟨alji⟩, N⟨delji⟩. Lo stesso per N⟨quelji⟩, eccetera.
    Es.: N⟨lji stracci, sulji spalti, alj’amici, quelj’altri⟩.
    Così facendo s’ottiene una maggior coerenza col latino e le lingue sorelle, che non hanno praticamente mai una g in queste posizioni. Qualche esempio dal latino: mulier > molje, filii > filji, palea > palja, familia > familja, cilium > ciljo, melior > miljore, consilium > consiljo.
    Resta da decidere se scrivere o no l’i (muta, etimologica) in parole come filjamo ~ filjiamo (come in sognamo ~ sogniamo e simili).

  • Le sequenze /ɡli/ e /ɡlj/ si scrivono ⟨gli⟩.
    Es.: N⟨ganglio, anglicano, glifo⟩.
    Anche mantenendo questo gli così senza modifiche si mantiene un’alta coerenza col latino e le lingue sorelle, che scrivono questa sequenza gli.

  • La zeta dura /(ʦ)ʦ/ si rappresenta con ⟨tz⟩, sia che prima si scrivesse con una o due ⟨z⟩. La zeta dolce /(ʣ)ʣ/ si rappresenta con ⟨z⟩ o ⟨zz⟩, scempia o doppia seguendo la grafia attuale.
    Es.: N⟨potzo, tzio, atzione, antzi, rozzo, bronzo, bizantino, zonzo, natzionalizzatzione⟩.
    Si accresce la coerenza col latino, mostrando che /(ʦ)ʦ/ deriva spesso da una t: thium > tzio, antea > antzi, Latium > Latzio, gratias > gratzie, laetitia > letitzia, eccetera; e mantenendo invece z dove c’è anche in latino (dal greco). Maggiore coerenza con le lingue sorelle.

  • L’esse dolce /z/ in posizione intervocalica (o posvocalica e presemiconsonantica) si rappresenta con N⟨s⟩; nella stessa posizione, l’esse dura /s/ si rappresenta con N⟨s̈⟩. In tutte le altre posizioni il valore della A/N⟨s⟩ come /s/ o /z/ è determinato dalle lettere circostanti. Ciò comporta che in composizione certe N⟨s⟩ iniziali diventino N⟨s̈⟩.
    Es.: N⟨astro, siamo, esso, caso, cas̈a, presentare, pres̈entire, semita, antis̈emita, francese, ingles̈e⟩.
    Questo è uno dei punti dubbi di questa proposta: sono incerto sulla scelta grafica dell’esse con dieresi.

  • L’RF (anche non realizzato) si rappresenta con un punto mediano (circa a metà dell’altezza della lettera, o all’altezza del punto alto dei due punti, ⟨:⟩) alla fine della parola raddop­piante; o all’inizio, nel caso eccezionale di dio, eccetera.
    Es.: N⟨e·, ma·, o·, su·, la·, qui·, ·dio⟩.
    Questo anche nel caso di parole plurisillabiche, come vediamo poi più sotto. Questa scelta grafica particolare vuole far intuire, con il puntino, che l’RF è in molti casi un’«ombra» del latino che ancora si sente in italiano; nella pratica, una consonante o più lettere cadute, che però esistono ancora «sublimate»: et > , tres > tre·, [il]lac > la·, sic > si·, rex, regem > re·, plus > piu·, nec > ne·, eccetera.

  • La /ɛ/ e la /ɔ/ sotto accento primario si rappresentano con ⟨è⟩, ⟨ò⟩, mentre non sono marcate se sotto accento secondario. La /e/ e la /o/ non si marcano, se non è richiesto dalle regole per la posizione dell’accento, che vediamo più sotto.
    Es.: N⟨bèllo, quello, còsto, mosto, lètto, metto, còllo, pollo⟩.
    La regola comporta la sparizione di certi accenti grafici in composizione.
    Es.: N⟨mèzzo, nòtte, mezzanòtte, tòsta, tostapane, sèi, cènto, seicènto⟩.

  • La /j/ e la /w/ si rappresentano con ⟨j⟩ e ⟨hu⟩ quando seguono una vocale o sono in principio di parola; si rappresentano con ⟨i⟩ e ⟨u⟩ negli altri casi.
    Es.: N⟨huòmo, huòvo, assihuòlo, suòlo, tuò­no, quale, quindi, jèna, ajuto, auguriamo, continujamo, seguiamo, argujamo, gaja, ghiaja, ghiaccio⟩.
    In composizione, se il secondo elemento viene a trovarsi dopo una consonante e inizia con ⟨j⟩ o ⟨hu⟩, questi si trasformeranno regolar­mente in ⟨i⟩ e ⟨u⟩.
    Es: N⟨huòmo, gentiluòmo, brav’huòmo, bravuòmo, antihuòmo, jèri, avant’jèri, avantièri, altrojèri⟩.

  • La /i/ e la /u/ non accentate, davanti a vocale non identica, si rappresentano con ⟨ï⟩ e ⟨ü⟩.
    Es.: N⟨vïale, dïario, vïaletto, manüale, ardüo, manüalmente⟩.

  • Accento in base alla posizione.
    Dal punto di vista dell’accentazione, il punto mediano ⟨·⟩ dell’RF si considera una «lettera» e una «consonante», anche quando non è realizzato. Quindi, per esempio, ai fini dell’accentazione ⟨ma·⟩ si considera «parola che finisce in consonante»; la sua ⟨a⟩ è la sua «penultima lettera».
    Definiamo «vocali grafiche» le lettere ⟨a⟩, ⟨e⟩, ⟨i⟩, ⟨o⟩, ⟨u⟩, con o senza diacritici; ⟨j⟩ non è una vo­cale grafica ma una consonante; la ⟨u⟩ dei gruppi ⟨qu⟩ e ⟨hu⟩ si considera sempre una consonante (valendo sempre /w/).
    Se l’accento grafico non è già segnato da una ⟨è⟩ o ⟨ò⟩, l’accento si segna nei casi seguenti, quando la parola ha almeno due vocali grafiche. Quest’accento si segna grave sulla ⟨a⟩, acuto sulle altre vocali: ⟨à, é, í, ó, ú⟩.

    1. Se la parola termina in consonante, l’accento si segna se non cade sull’ultima vocale. Es.: N⟨andar, veder, métter, párlan, Peru·, carita·, citta·, cóme·, quàlche·⟩.
    2. Se la parola ha almeno tre vocali e termina in CiV o CuV (anche NCïV, NCüV), l’accento si segna se non cade sulla terzultima vocale. Es.: N⟨aria, María, attüa, cacatúa⟩. Ciò conserva una coerenza grafica fra singolari e plurali dei termini in /-jo/, sia fatti nel modo consueto sia con -ii alla latina (ove sensato): N⟨orario, orari, orarii; esilio, esili, esilii⟩. C’è anche coerenza grafica fra singolari e plurali quando abbiamo -ío accentato: N⟨addío, addíi, pendío, pendíi, brusío, brusíi, luccichío, luccichíi⟩.
    3. Se la parola termina con ⟨CV⟩, l’accento si segna se non cade sulla penultima vocale. Es.: N⟨àlito, respiro, mínimo, stúpido, stupito, àura, leone, vedere, édere, massone, sàssone, fabbro, fàbbrica, fàbbricano⟩.


    Si noti che la regola comporta l’aggiunta di certi accenti in composizione: N⟨via, avvía, due, cento­dúe, ·dio, addío⟩. Ciò è normale, succede anche nella grafia attuale; es.: A⟨su, quassú, che, perché, re, viceré⟩. In qualche caso con la nuova norma l’accento che si aggiungeva non si aggiunge più: N⟨su·, quassu·, che·, perche·, re·, vicere·⟩.
    Quando abbiamo due (o più) parole unite con un’elisione, è sempre l’ultimo pezzo che determina l’accento del blocco complessivo, indipendentemente dall’eventuale presenza d’accenti grafici sugli altri pezzi: N⟨bèll’umore, mèzz’ora, últim’ora⟩ si leggono /bɛllumo̍re, mɛʣʣo̍ra, ultimo̍ra/; non */bɛ̍llumore, mɛ̍ʣʣora, u̍ltimora/.
    Restano da raffinare le regole per casi rari come chiciua, Isaia, Seui, piue.

  • Per rappresentare /ʧ/ in fine di parola si scrive ⟨cj⟩.
    Es.: N⟨diècj anni, dódicj anni, cj avete⟩.

  • In poesia, se la vocale che segue un’/i/ o /u/ non è accentata, il poeta dittongherà spesso queste sequenze (immaginando quasi un accento secondario sulla prima vocale del gruppo), che in prosa portano la dieresi. In tal caso, la dieresi si sostituisce con un titolo: ⟨ĩ, ũ⟩.
    Es.: N⟨dïarista, vïaletto, ardüo, mutüo, argüivamo, düalismo, continüamente⟩ > ⟨dĩarista, vĩaletto, ardũo, mutũo, argũivamo, dũalismo, continũamente⟩.

  • Un’altra cosa che resta da decidere è se e come usare eventuali accenti grafici per distinguere monosillabi che dalle regole definite sarebbero omografi: ⟨da·⟩ e ⟨da·⟩, ⟨se·⟩ e ⟨se·⟩, eccetera.

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Un po’ di parole scritte in questa proposta, per impratichirsi:

  • àula, Màuro, àulico, càusa; — paura, baule, Aulla, bautta;
    dàino, bàita, làico, tàiga, fàida — Aida, cocaina, Caino, vivaista;
    lèsto, fèsta, mèsto, agrèste — questo, cesto, bestia, pesto;
    còtto, fiòtto, lòtto — rotto, sotto, condotto;
    asteròide, Bòito, mòira, stòico — angioino, Coimbra, moina, Troisi;
    trilja, filja, grilja, Marsilja — umilia, esilia, Emilia, Sicilia;
    paves̈e, cines̈e, ingles̈e — paese, francese, cortese;
    vòrtice, índice, pontéfice, àpice — vernice, Alice, pendice, cornice;
    Elía, Rosalía, Albanía, Lombardía — Libia, Colombia, Campania, India;
    sòja, giòja, sequòja — tettoja, cesoja, Pistoja;
    unita·, infinita·, ferita· — unita, infinita, ferita;
    potzo, sotzo, lontza — rozzo, bonzo, bronzo;
    única, èpica, física, Còrsica — amica, lorica, vescica, Martinica.

Un po’ di nomi geografici:

  • Àfrica, Amèrica, Asia, Euròpa, Oceania.
    Bèlgio, Francia, Germania, Grècia, Italia, Portogallo, Spagna.
    Bari, Bologna, Brescia, Catania, Firèntze, Gènova, Messina, Milano, Nàpoli, Pàdova, Palèrmo, Parma, Prato, Roma, Tàranto, Torino, Trïèste, Venètzia, Verona.
    Alpi, Ande, Appennini, Atlante, Càucaso, Carpatzi, Imàlaja, Pirenèi.
    Àdige, Danubio, Eufrate, Gange, Mèno, Nilo, Nipro, Orinòco, Pò·, Rubicone, Tago, Tamigi, Tévere, Tigri, Vístola.

Un po’ di parole oggi omografe che con questa proposta non lo sarebbero più:

  • abbàino, abbaino; àbitino, abitino; abòmini, abomini; accètta, accetta; adúlteri, adultèri; affètto, affetto; agútzino, aguzzino; àmbito, ambito; àncora, ancora; àprile, aprile; àuguri, auguri; àuspici, auspici; balia, balía; benèfici, benefici; bòtte, botte; càpitano, capitano; circúito, circüito; condòmini, condomini; còrso, corso; des̈íderi, des̈idèri; dèmoni, demòni; dòtto, dotto; èsse, esse; ètere, etère; fòrmica, formica; fòro, foro; ímpari, impari; índico, indico; intúito, intüito; lègge, legge; lèggere, leggère; lústrino, lustrino; malèfici, malefici; màrtiri, martiri; mèta, meta; mèzzo, metzo; monòtono, monotòno; mòzzo, motzo; nòcciolo, nocciòlo; pàgano, pagano; pèsca, pesca; prèsidi, presidi; príncipi, principi; púbblicano, pubblicano; ratza, razza; règia, regía; rónzino, ronzino; ségnalo, segnalo; séguito, seguito; sèrvile, servile; scrívano, scrivano; vènti, venti.

E altre ancora. Ci sono poi in più:

  • i participi passati maschili plurali in -ati, con i corrispondenti imperativi alla seconda persona singolare + il clitico -ti: ⟨accomodati, accòmodati; affrettati, affréttati; altzati, àltzati; guardati, guàrdati; levati, lèvati; sbrigati, sbrígati; spostati, spòstati; voltati, vòltati⟩; e tanti altri;
  • le coppie /-ɔ̍ri/ ~ /-o̍ri/: ⟨adulatòri, adulatori; osservatòri, osservatori; scrittòri, scrittori; scultòri, scultori⟩; eccetera.

Di séguito un esempio di brano scritto con questa proposta; riprendiamo un brano dal libro del ’21 con qualche lieve cambiamento.

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Il mio lettore che· è· arrivato fin qui· sara· probabilmente un pò’ perplèsso sulla ragionevoletza e· le opportunita· di questa riforma gràfica. Tutti questi accènti, le grafíe strane e· nuòve, lji rallèntano la lettura, la appes̈antíscono, lo costríngono a· fermarsi sulle síngole paròle perdèndo il filo del discorso.
     È inevitábile che· sia cos̈i·; sarèbbe strano il contrario! Dirèi che· è· persino giusto che· sia cos̈i·. Chi· per tutta la vita, fin da bambino, è· stato abitüato a· scrívere e· lèggere sèmpre in un cèrto mòdo, pòrta profondamente radicate dentro di se·, in mòdo istintivo oltre che· cònscio e· ratzionale, le forme e· i meccanismi di quel sistèma gràfico. Se· ci dícono a· voce un nome o· una paròla italiana che· non abbiamo mai sentito e· non conosciamo, di sòlito sappiamo comunque cóme· scríverla da· súbito, in mòdo istintivo, sèntza bisogno di ragionare su· quali símboli scritti, o· combinatzioni di símboli scritti, sèrvano per rappresentare quella data sequèntza di suòni. È· giocofòrtza, quindi, che· un sistèma divèrso, appena introdotto, càusi una sensatzione di disturbo e· di difficoltà, di rallentamento: còtza contro decènni di abitúdine consolidata e· mai messa in discussione.
     Tuttavía, questo non è· un problèma. Il nòstro cervèllo, anche nei suòi automatismi e· aspètti incònsci, è· molto dúttile e· vivace: impara, si adatta e· si abitüa alla svèlta. Faccio un esèmpio pràtico. Un giorno, dopo un pajo d’ore passate al computière a· preparare un tèsto (d’argomento geogràfico) scritto secondo un’ortografía riformata (non esattamente questa proposta, ma· una versione precedènte non tròppo divèrsa), mi capitò· di scrívere alcuni brèvi appunti a· mano, per tutt’altra còs̈a; e· nello scrívere la mia mano aggiunse automaticamente, sèntza bisogno che· ci pensassi, lj’accènti delle paròle sdrúcciole e· altri segni dïacrítici dell’ortografía di allora […]